Il Venerabile Don Pasquale Uva precursore nel Mezzogiorno d’Italia  di attività di accoglienza e inclusione

La riflessione dell'Arcivescovo sulla figura del Venerabile, tenuta il 15 marzo, a Bisceglie,  presso la Sala conferenze dell’Opera Don Uva, all'interno delle giornate della seconda edizione di "Dialoghi sulla salute", rassegna “Circolo dei lettori – Presidio del libro” di Bisceglie, nell’ambito del progetto “La parola che cura – Viaggiare per non perdersi”

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Il Venerabile Don Pasquale Uva precursore nel Mezzogiorno d’Italia  di attività di accoglienza e inclusione

La riflessione dell’Arcivescovo sulla figura del Venerabile, tenuta il 15 marzo, a Bisceglie,  presso la Sala conferenze dell’Opera Don Uva, all’interno delle giornate della seconda edizione di “Dialoghi sulla salute”, rassegna “Circolo dei lettori – Presidio del libro” di Bisceglie, nell’ambito del progetto “La parola che cura – Viaggiare per non perdersi”

A Bisceglie, come “in tutte le città, senza eccezioni di sorta, dalle maggiori alle più piccole, si ripeteva il commovente inumano spettacolo della deficienza, crudele svago dei monelli, in pochi suscitatrice di sterile compassione, fenomeno inosservato per i più […]. Erano infelici deficienti, epilettici, paralitici, ebeti, scemi, deformi i quali, girando per le strade e per le piazze, cenciosi, sudici e seminudi, venivano rincorsi e malvagiamente picchiati dai monelli. Fanciulle deficienti diventavano vittime delle più brutali passioni di cui è capace l’uomo animale […]. E così questi infelici, cui si negava l’asilo negli ospedali e nei ricoveri comuni, perché logicamente vietato dai rispettivi statuti, passavano la vita, specie dopo la morte dei genitori, per lo più senza tetto, esposti ai rigori della stagione, della fame, delle malattie, del sudiciume che li divorava e degli insetti che disseminavano per le strade, finché la pietosa morte non veniva a liberarli da tali supplizi” (G. Felsani, Casa della Divina Provvidenza, Tipografia Casa della Divina Provvidenza, Bisceglie 1952, p.8).

È questa la realtà che per don Pasquale Uva diventa chiamata ad impegnare la sua vita di presbitero a servizio dei deficienti, ad accogliere coloro che erano gli ultimi, gli esclusi, a prendersi cura di loro con amore.

 

Gesù: il perché del suo approccio inclusivo

Cosa lo spinse a curare questi folli rifiutati da tutti? La certezza che in ogni sofferente vi è Cristo: ecco il segreto di don Uva! Egli non è un benefattore dell’umanità allo stesso modo dei filantropi, ma è ancora di più, è colui che viene incontro alle sofferenze alleviandole perché è innamorato di Cristo e, di conseguenza, ama tutto quanto Dio stesso ama” (Nicola Gori, a cura di, Pasquale Uva, Amate gli ammalati, Pensieri scelti, Edizioni San Paolo, 2006, p. 17).

Credo che l’approccio inclusivo di don Pasquale, trovi qui il suo motivo fondamentale. Accogliere, amare e curare gli ultimi, è incontrare Gesù stesso. Gli ultimi sono sacramento della presenza del Signore. Così troviamo scritto nel Vangelo: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 35-40).

Provare a dire qualcosa sul tema dell’approccio inclusivo nei confronti degli ultimi da parte di don Uva, a mio avviso, domanda di considerare un dato di partenza necessario: don Pasquale è un prete, un vero prete, e come tale non può che avere come modello di riferimento Gesù, da Lui si è lasciato catturare, a lui ha risposto donando e consacrando nel Sacramento dell’Ordine la sua persona. Come Lui e con Lui vuole vivere.

Questo Gesù che incontra nelle lunghe ore di preghiera davanti al tabernacolo, lo riconosce presente nei fratelli e sorelle, in modo particolare negli ultimi. Con queste parole si rivolge alle Ancelle della Divina Provvidenza: “Scopo della nostra istituzione è quello di dare gloria al Signore con la nostra perfezione e l’assistenza agli infelici, guardando in questi la stessa persona di nostro Signore Gesù Cristo” (Nicola Gori, a cura di, Pasquale Uva, Amate gli ammalati, Pensieri scelti, Edizioni San Paolo, 2006, n. 33, pp. 39-40).

Dare gloria al Signore, è l’invito che rivolge alle Ancelle della Divina Provvidenza, sia attraverso la vita di perfezione secondo i consigli evangelici di povertà, obbedienza e verginità per il Regno dei Cieli, sia attraverso l’assistenza agli infelici che domanda accoglienza, amore, cura, inclusione.

Egli accoglieva ortofrenici, deficienti, epilettici, deformi, alienati. Procurava alimenti, medicine, il piacere della vita, il divertimento. Soccorreva anche le famiglie dei pazienti. Guardava alle nuove povertà. Ma obiettivo per lui preponderante era la promozione umana, il culto della personalità, supremo valore creato” (Corrado Ursi, in Salvatore Garofalo, La più difficile carità. Il Servo di Dio Don Pasquale Uva, Casa della divina Provvidenza, Opera don Uva, 1995, p. 6).

«L’intuizione di fondo che Don Uva colse nella malattia e che molti studiosi e ideologi delle moderna psichiatria non riescono a cogliere, è essenzialmente questa: i dementi non sono degli “uguali” resi diversi dalla società, ma sono diversi che devono avere uguali diritti degli altri» (Marcello Veneziani, Don Pasquale Uva tra passato e presente, Tipografia Mezzina, Molfetta 1983, pp. 15-16).

Diversi con gli stessi diritti di tutti perché tutti e ognuno siamo persone con la stessa dignità. Don Pasquale, prete, uomo di fede, riconosce questa dignità nel fatto che ogni persona è abitata dal Signore, ognuno, nella sua verità più profonda è immagine di Dio, un riflesso originale e irripetibile dell’unico volto di Dio.

Tutto ciò a parte da uno sguardo che riconosce negli altri, soprattutto gli infelici, i malati, gli scartati, la presenza dell’Altro. È Gesù che sta alla base dell’approccio, della relazione inclusiva di don Uva, atteggiamento che dovrebbe appartenere ad ogni battezzato.

Nel sofferente ogni persona di fede vede Gesù. Nel sofferente, ogni persona di fede o no, è chiamata a vedere un suo fratello, a riconoscerne la dignità di essere umano che domanda rispetto, accoglienza, assistenza, cura, amore. Ogni persona, ancora di più quando è sofferente, debole, fragile… è realtà sacra!

“L’Opera doveva affermare fortemente il valore della vita umana nella sua integrità fisica, psichica e spirituale. Per tale ragione gli ammalati avevano un orario proprio: levata, preghiera, colazione, scuola o lavoro, pranzo, ricreazione ecc. L’ammalato doveva essere trattato con la stessa dignità di ogni altra persona sana di mente e di corpo. I pazienti che lavoravano a fine settimana godevano anche una paghetta per le necessità personali o da mandare in famiglia.

L’unico scopo dell’Opera di don Pasquale è: La gloria di Dio; la dignità della persona umana; la persona sofferente è la stessa persona di Nostro Signore Gesù Cristo; aiutare gli ammalati a valorizzare la loro sofferenza per la salvezza del mondo”(Suor Santina Sabia, Superiora Congregazione Ancelle della Divina Provvidenza, Opera Don Uva, Bisceglie, Pro Manuscripto, 2022).

 

Lo sguardo e la compassione: il come del suo approccio inclusivo

 

  • Lo sguardo

Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” (Mc 10, 17-21).

C’è un tale che chiede vita e vita eterna. Nell’esperienza umana, questa è una domanda che si fa più forte nella misura in cui la vita è percepita come ridotta, impedita, non riconosciuta, sofferente: quando si vive la vita degli ultimi!

Nei confronti di questa persona lo sguardo di Gesù non è sfuggente né superficiale: fissatolo lo amò.

Fissatolo:  è un guardare dentro, indica uno sguardo penetrante. Guardando in profondità, vedendo anche ciò che non appare all’esterno, o ciò che non è conosciuto dallo stesso interessato… lo amò; amò ciò che vide!

Cosa si scorge quando si guarda in profondità come Gesù? Al di la di ciò che può apparire, si incontra la verità che appartiene ad ogni persona, la sua dignità, l’essere immagine e somiglianza di Dio.

Eugen Drewermann, teologo e terapeuta, nel suo libro Cenerentola, La fiaba dei fratelli Grimm interpretata alla luce della psicologia del profondo, così si esprime sull’argomento: Cenerentola, un nome dal significato impreciso, “poiché descrive solo il lato esteriore, ciò che si vede; nella natura di una ‘Cenerentola’, invece, conta molto di più ciò che non si vede, ma che si deve assolutamente vedere per comprendere l’essenza di una persona del genere. Il segreto, il miracolo della sua vita consiste infatti nel non perdere mai il senso della propria dignità, anche nella disgrazia e nel non rinunciare, di fronte alla forza apparentemente schiacciante delle resistenze opposte da tutto il mondo esterno, al sogno di essere fondamentalmente destinata a qualcosa di regale. Tale contrasto tra l’umiliazione esteriore e la vocazione interiore, tra le condizioni di partenza e il traguardo, tra il destino avverso e il desiderio del cuore determina il nucleo della figura di Cenerentola. Volendo esprimere la tensione insita nel suo soggetto, quindi, la fiaba dei fratelli Grimm dovrebbe chiamarsi non ‘Cenerentola’, bensì ‘La regina della cenere’ […] Nel linguaggio delle fiabe ‘Cenerentola’ è una dimostrazione della dignità non ancora scoperta della persona in condizioni apparentemente umili, un simbolo dell’incrollabilità di una nobiltà interiore che non conosce la propria origine, eppure anela fervidamente il proprio futuro. ‘Cenerentola’ si ripete ovunque e ogni qual volta le persone non smettono di credere nella vocazione del proprio essere, malgrado tutto”.

            C’è qui il tema dell’ ”amabilità essenziale”, una amabilità a partire da quello che si è, e non da quello che si fa, indipendentemente da come si appare, da quello che si manifesta di sé, da quello che vedono o valutano gli altri.

L’approccio di don Uva è caratterizzato da uno sguardo amorevole, come quello di Gesù, sa guardare in verità, riconosce la stessa dignità in ogni essere umano.

Un testo di don Tonino Bello può aiutarci in questa nostra riflessione:

Basilica Maggiore, in Renato Brucoli e Ignazio Boi, a cura di, Occhi nuovi. Le parole che dicono il suo sguardo, ED INSIEME, 2028, p. 94.

 

  • La compassione

Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità. Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore (Mc 9, 35-36).

            Il testo di Marco descrive la compassione che la vista delle folle provoca su Gesù: “vedendo le folle ne sentì compassione”. La vista delle folle lo commuove. Per Gesù è una scena che tocca il cuore e ferisce l’anima. Il suo, è uno sguardo che sa andare oltre ciò che appare, sa cogliere il cuore dell’altro e allo stesso tempo sa coinvolgere il proprio cuore. È uno sguardo di empatia.

Pensiamo alle nostre relazioni se sono conseguenza di uno sguardo superficiale, freddo, interessato (nel senso di egoismo alla ricerca di una gratificazione personale) e distante; oppure sono frutto di uno sguardo che sa realisticamente conoscere e riconoscere la realtà e coinvolgere di conseguenza il nostro cuore in modo gratuito?

Gesù non solo guarda oltre l’apparenza, vedendo ciò che l’uomo è al livello del cuore, vede anche ciò che l’uomo non riesce ad essere ancora e che è chiamato a diventare; diventare un gregge con il suo pastore. Gregge è un’immagine carica di affetto che rimanda alla comunità in cui si vivono relazioni di vicinanza, legami di fraternità, in cui ci si sente al sicuro, accompagnati, difesi e sostenuti da un pastore che ci conosce, ci chiama per nome, uno ad uno, ci vuole bene. È il pastore, Gesù, che da la sua vita per noi, per tutti noi e per ciascuno di noi, anche per chi somiglia a quella pecora smarrita che non viene abbandonata alla sua sorte, è desiderata, cercata, e una volta trovata non viene punita o rimproverata, ma caricata sulle spalle dal buon pastore è ricondotta all’ovile, a casa. Imitare il buon pastore, così fece don Uva nei confronti della tante pecore smarrite, abbandonate, senza casa, non amate o perfino derise ed escluse.

Ecco, a mio avviso, un’altra caratteristica dell’approccio inclusivo di don Pasquale: ogni persona ha uguale diritto ad essere considerata, accolta, assistita, curata e attraverso questi atteggiamenti, soprattutto riconosciuta nel suo essere originale riflesso dell’unico volto di Dio, aiutata a manifestarlo, superando ciò che gli impedisce di farlo.

A partire da questo guardare oltre e, di conseguenza, dalla percezione dello scarto tra ciò che l’uomo è e ciò che è chiamato a diventare e ancora non riesce ad essere, nasce la compassione di Gesù. È questa compassione che lo muove a dire, ad agire, ad accogliere, a compiere il miracolo…

È la stessa compassione che mosse don Uva verso gli ultimi e permise alla Provvidenza di Dio, attraverso il suo agire, di compiere il miracolo: in poco più di 30 anni aveva fondato, a Bisceglie, un ricovero per deficienti, l’ospedale psichiatrico, e altri manicomi nel resto del Sud (Foggia, Guidonia, Palestrina, Potenza).

Guardare le persone in questo modo significa anche aiutarle a prendere consapevolezza di chi sono (un dono prezioso da accogliere, immagine e somiglianza di Dio) e chi sono chiamate a diventare (riflesso originale, unico e irripetibile di Dio). Guardare i deficienti in questo modo crea il contesto necessario perché questi si sentano spinti a superare difficoltà, recuperare ritardi, trovare il proprio modo di vivere nella comunità sociale ed ecclesiale, in una parola, spinti a vivere la guarigione! Al contrario, l’indifferenza fa nascere solitudine, frustrazione in chi ci passa accanto. L’interesse per ciò che porta guadagno fa accantonare i malati cronici, emarginare i malati psichiatrici, escludere gli anziani, uccidere coloro che ancora non vedono la luce! (cf. Papa Francesco, tema dello scarto in Fratelli tutti).

“L’amore implica qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti” (Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 94).

 

 

Approccio inclusivo: sguardo che trasforma

Concludo con un’ultima caratteristica dello sguardo di don Pasquale, come quello di Gesù, che permette quello che abbiamo chiamato un approccio inclusivo. Mi faccio aiutare dalle parole di S. Giovanni della Croce. Così dice nel Cantico Spirituale:

 

La Sposa

  1. Dove ti nascondesti,

in gemiti lasciandomi, o Diletto?

Come il cervo fuggisti,

dopo avermi ferito;

ti uscii dietro gridando: ti eri involato!

  1. Pastori, voi che andate

di stazzo in stazzo fino all’alto colle,

se per caso incontrate

chi più di ogni altro bramo,

ditegli che languisco, soffro e muoio.

  1. In cerca del mio amore,

andrò per questi monti e queste rive;

non coglierò mai fiore,

non temerò le fiere,

supererò i forti e le frontiere.

 

Domanda alle creature

  1. O boschi e selve ombrose

piantate dalla mano dell’Amato!

O prato verdeggiante

di bei fiori smaltato!

Ditemi se attraverso voi è passato.

 

Risposta delle creature

  1. Mille grazie spargendo

passò per questi boschi con snellezza,

e, mentre li guardava,

solo con il suo sguardo

adorni li lasciò d’ogni bellezza.

 

È uno sguardo, quello di Dio, che sa riconoscere nelle creature la bellezza della sua immagine, ma anche uno sguardo che ‘adorna’ di bellezza ciò che guarda: la potenza dello sguardo di Dio!

Per analogia, qualcosa del genere può accadere anche allo sguardo umano.

Il nostro modo di guardare una persona la aiuta ad essere/diventare come la guardiamo. Riconoscere in lei la bellezza del volto di Dio, aiuta, sostiene, favorisce la manifestazione di questa.

Don Pasquale Uva riconosce negli ultimi la presenza di Cristo, è questa la condizione e la motivazione che lo spinge all’accoglienza, all’approccio inclusivo.

Sull’esempio di don Pasquale, sentiamoci anche noi chiamati ad avere uno sguardo che ricerca e riconosce la particolare bellezza del volto di Dio riflesso in ogni persona, in modo particolare negli ultimi che domandano come tutti di essere aiutati ad esprimere la bellezza della loro dignità.

Don Pasquale ha rivelato il volto di Dio, Padre buono, attraverso il suo servizio, ma ha anche riconosciuto il volto di Dio nelle persone che ha incontrato nel servizio.

 

Mille grazie spargendo

passò per questi boschi con snellezza,

e, mentre li guardava,

solo con il suo sguardo

adorni li lasciò d’ogni bellezza.

 

Tutto qui!

Riflessione Arcivescovo su Don Uva